“LA PELLE DELLA TERRA”        (SINOSSI)


SONO CRESCIUTO FOTOGRAFICAMENTE CON LE FOTO DI MARIO GIACOMELLI, DI CUI HO
VISTO UNA MOSTRA NELLA MIA CITTA’ AGLI INIZI DEGLI ANNI OTTANTA.
UNA FOLGORAZIONE.
I SUOI TERRENI PASSAVANO DAVANTI I MIEI OCCHI IPNOTIZZANDOMI.
DA ALLORA, CON UNA KIEV 80 ED UN PESANTISSIMO OBIETTIVO 250 MM RUSSO, E
TUTT’ORA CON IL DIGITALE, FOTOGRAFAVO E FOTOGRAFO LA TERRA CHE OGNI ESTATE
APPARE AI MIEI OCCHI, PERCHE’ NE SENTO IL BISOGNO.
COSI’ I BIANCHI ED I NERI CHE TANTO AMAVO IN GIACOMELLI, SONO DIVENTATI I MIEI
BIANCHI E NERI. OGNI AUTORE HA UNA PROPRIA SENSIBILITA’ E POETICA,
ANCHE SE PRENDE ISPIRAZIONE DA ALTRI AUTORI PIU’ GRANDI.
COSI’ PROPONGO I “MIEI” TERRENI, IMMAGINI DEI TERRITORI DEL CENTRO DELLA SICILIA.
SONO IL SEGNO DEL MIO SENTIRE INTERIORE CHE PRENDONO FORMA IN QUESTE FOTOGRAFIE.
TESSUTI, TEXTURE, PELLE DELLA TERRA, MADRE DI TUTTO.
ENRICO LA BIANCA

testo critico
Enrico La Bianca “La pelle della terra”
di Fabiola Di Maggio


Io credo all’astrattismo, per me l’astrazione è un modo di avvicinarsi ancora di più alla realtà. Non mi interessa tanto documentare quello che accade, quanto passare dentro a quello che accade.” Così scriveva Mario Giacomelli. Un maestro che ci ha consegnato un particolare sguardo sul mondo. Sul paesaggio e su certe condizioni umane. Specifico, eppure uno “sguardo astratto” il suo che, come quello di chi ha il talento per lasciare un’eredità culturale visuale, ha fatto scuola. E la scuola, si sa, funziona solo se c’è il cuore di recepirla e, poi, trasmetterla.
Così, la prospettiva inaugurata da Giacomelli, diventa quella di chi, comprendendone la portata ideale, la desume e la proietta contestualmente sul mondo che gli appartiene. È in questo processo, consapevole e dichiarato, di ascendenza giacomelliana, che vede la luce “La pelle della terra” di Enrico La Bianca. Un lavoro sul paesaggio dell’entroterra siciliano che Enrico sente di cogliere con “tratti tipografici” per scrivere, in modo essenziale e assoluto, le parole “naturali” della sua terra. Alberi, campi arati, case solitarie, descrivono una condizione epidermica endemica, immutabile e granitica ad ogni passaggio estivo, che in un bianconero taoista ci comunica gli opposti necessari all’equilibrio
– fotograficamente inteso – della vita dello sguardo: pieno/vuoto, reale/immaginario, particolare/universale, dentro/fuori, uguale/diverso. Una pelle che riveste molte terre del mondo, che molti sguardi hanno incrociato e alcuni, come Enrico, fotografato. Un modo astratto “per passare dentro a quello che accade”, dove si avverano le lezioni dei maestri.

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